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Hard to be a God - Recensione

13/11/2013 | Recensioni
Hard to be a God - Recensione

Tratto da un romanzo (1964) di Arkady e Boris Strugatsky. Sulla Terra del futuro, il Comunismo è riuscito a creare una condizione di assoluta uguaglianza e prosperità. Alcuni scienziati sono inviati sul pianeta Arkanar, abitato da esseri umani che vivono in uno stadio di sviluppo equivalente a quello medioevale, allo scopo di insegnare loro la via del progresso. La storia segue le vicende di un membro della spedizione, Rumata, e la sua lotta quotidiana per salvare artisti ed intellettuali dal potere locale che li stermina. Se l’impronta visiva ha un che di onirico, accentuato dal una scarna fotografia in bianco e nero virato al grigio, l’iperrealismo è la cifra predominante. Nulla di fantascientifico o futuribile fa la sua comparsa, tutto quello a cui assistiamo ha luogo nell’ambito dell’arcaico squallore di Arkanar. Si parla di noi e dell’eterno ripetersi di sbagli e tappe obbligate nel percorso della condizione umana. Laica ed impietosa, la regia di Alekseji Yurevic German condanna senza riserve il ruolo distruttivo del bigottismo e del fanatismo. Porta alla luce l’orrore connesso al grado zero dell’individuo, e spinge gli attori sopra le righe (eccetto, in parte, il Rumata di Edward Zentara) ricostruendo un Medioevo dalla veridicità impressionante. Questo spiega la costante mobilità della cinepresa, incollata ai personaggi con la curiosità di uno spettro invisibile, ed i ricorrenti primi piani in cui lo sguardo sembra rivolgersi oltre lo schermo in cerca di complicità da parte dello spettatore. Si tratta a tutti gli effetti di una visione assai ostica e faticosa, sia per la durata estenuante del lungometraggio sia per l’insistenza su dettagli ripugnanti spesso ai limiti del tollerabile. Complesso e disturbante, evidentemente disinteressato a compiacere qualsiasi categoria di pubblico, condivide i dubbi ed il pessimismo del protagonista senza fornire risposte certe. E’di sicuro un’opera frutto di illimitata libertà creativa e polemica, e costituisce di per sé una fiera contraddizione della rozza intolleranza messa in scena.

 


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